A Dubai è iniziata la 28ma edizione della Conferenza delle Parti sul Cambiamento Climatico delle Nazioni Unite (Cop28). Tuttavia, scandali, divisioni sui temi chiave come i combustibili fossili e il meccanismo loss&damage e l’assenza di leader di spicco minano la credibilità del summit, rischiando di farlo diventare la conferenza della “reazione fossile”
di Corinna Pindaro
La Cop28 di Dubai, la conferenza annuale sul cambiamento climatico patrocinata dalle Nazioni Unite, sta entrando in una tempesta di sfide alla sua credibilità. L’evento, più che puntare alla salvaguardia del pianeta attraverso l’implementazione delle risorse energetiche alternative rischia sempre più di divenire una vetrina del ritorno all’uso dei combustibili fossili.
Le Cop (acronimo di Conference of Parties), sono incontri annuali promossi dall’Unfccc, la Convenzione delle Nazioni unite sui cambiamenti climatici cui hanno aderito tutti i paesi del Pianeta e si svolgono annualmente in una località diversa, con l’ospite del turno che assume automaticamente la presidenza. Questa volta, la ventottesima edizione a Dubai, il palcoscenico è predisposto per aspri contrasti su temi chiave. La questione è se il termine “combustibili fossili” sarà incluso nella risoluzione finale. Alla Cop26 nel 2021, i paesi fortemente dipendenti dal carbone – principalmente Cina e India – insistettero per limitare il dibattito alla riduzione dell’uso del carbone, piuttosto che alla sua eliminazione.
In aggiunta a questo, c’è l’importante questione del riparare i danni causati dal cambiamento climatico, il “loss&damage”. Le nazioni del sud globale – Africa, America Latina, Sud-Est asiatico – esigono che i paesi industrializzati paghino per i danni che la crisi climatica sta causando. Nell’ultima edizione sul punto si raggiunse a sorpresa un accordo di massima, grazie soprattutto al peso negoziale della Cina, grande sponsor dell’iniziativa. Ma su chi debba mettere i soldi, a quanti paesi vadano, chi gestisca questi flussi di denaro, non c’è ancora chiarezza.
In particolare, i negoziati intermedi hanno visto contrapporsi da un lato le nazioni a basso reddito, che chiedono di ampliare la platea dei riceventi e di affidare i fondi ad una istituzione ad hoc. Dall’altro i paesi occidentali, su tutti gli Stati Uniti, che vorrebbero far gestire il processo alla Banca Mondiale e concedere l’accesso al minor numero possibile di nazioni. Dubai, sul punto, potrebbe essere il luogo adatto a trovare un compromesso.
In questo quadro, la Cop28 si apre già in un contesto denso di problemi, polemiche e le defezioni di alcuni leader chiave. Gli Emirati Arabi Uniti, la nazione ospitante ricca di petrolio, non aiutano la situazione. Inoltre, il presidente e CEO dell’Abu Dhabi National Oil Company, Sultan Al Jaber, è accusato di aver utilizzato gli incontri in preparazione alla Cop28 per negoziare nuovi accordi sui combustibili fossili per la sua compagnia.
Anche senza le principali capitali mondiali presenti, lo scenario si presenta pregno di tensioni geopolitiche. Argomenti quali le crisi dell’Ucraina e di Taiwan, e al contempo la mancata presenza di Xi Jinping e Joe Biden, rendono più difficile raggiungere un’azione concreta per il clima.
E, a complicare ulteriormente il quadro, l’influenza costringerà Papa Francesco a non partecipare alla conferenza per la prima volta. L’Unione Europea, storicamente al passo con le azioni sull’ambiente, sembra giungere alla conferenza indebolita dalla crisi energetica e con un nuovo negoziatore con passato nell’industria del petrolio.
Questo contesto di scandali e mancanza di ambizioni governative hanno scoraggiato gli ambientalisti, ma incoraggiato l’industria dei combustibili fossili. Secondo Global Witness, i lobbisti a favore dei combustibili fossili presenti potrebbero superare quelli presenti al Cop27. Tutto questo alimenta timori che il summit di Dubai segni un rallentamento delle politiche di transizione, mettendo a rischio la reputazione dei negoziati sul clima promossi dalle Nazioni Unite, e ritornando ad una “reazione fossile”.
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