In Eritrea esiste uno splendido esempio di armonica convivenza tra il territorio e un’istituzione cattolica. E’ l’esperienza vissuta per vent’anni nel piccolo paese del Corno d’Africa dalle suore Domenicane di Torino che nei fatti smentisce tutta una narrativa che vuole il governo di Asmara nemico dei cattolici. Quello che il Presidente Isaias Afewerki ha sempre difeso è l’autonomia del suo Paese da ingerenze esterne, siano esse politiche o economiche, musulmane o cattoliche. L’Eritrea del resto per venti anni è stata impegnata in una guerra di confine con l’Etiopia ed allo stesso tempo è stata oggetto di vari tentativi esterni d’ingerenza. Proprio in questi giorni il ministero dell’Informazione di Asmara ha denunciato tentativi del Qatar volti a favorire insurrezioni in Eritrea, mentre non più di due settimane fa lo stesso ministero aveva rivelato come Cia e Mossad nel corso degli anni avrebbero più volte tentato di fare cadere l’attuale governo in carica. In uno scenario del genere è evidente che il Presidente Afewerki ha sempre tenuta alta la guardia contro le ingerenze esterne, a cominciare da quelle religiose, siano esse musulmane che cattoliche. Quella che segue è una bella ricostruzione fatta da Marilena Dolce sulla ventennale esperienza in Eritrea delle Suore Domenicane di Torino. Un documento che spiega bene come la presenza sana e senza secondi fini dei cattolici in Eritrea ha sempre avuto grande libertà e successo.
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Dal 1985 al 2005 l’Unione delle Suore Domenicane, con sede generalizia a Torino, collabora con gli eritrei. Un lavoro avviato ancor prima dell’indipendenza dell’Eritrea (1991), con progetti su scuole e sanità. La loro storia inizia quando, poco più che trentenni, cominciano a viaggiare tra Italia ed Eritrea per seguire i progetti. Ora Suor Edvige, Suor Giacomina e Suor Vittoria hanno deciso di raccontare la loro esperienza positiva in Eritrea, paese con cui hanno mantenuto un ottimo rapporto.Suor Giacomina attualmente è la responsabile della Congregazione di Torino, con sede in centro, in Via Umberto Cosmo. “Da quando”, spiega, “sono stata eletta Madre generale della Congregazione, ho dovuto trasferirmi nella sede della Curia Generalizia della nostra Congregazione, l’Unione delle Suore Domenicane di San Tommaso d’Aquino. Prima, con Suor Edvige e suor Vittoria, che mi hanno seguita, vivevamo in appartamento, pagando l’affitto, grazie al nostro lavoro”.
“Noi”, prosegue, “facciamo parte di un istituto religioso femminile di diritto pontificio, nato nel 1967. Ciò significa che, rispetto agli istituti di diritto diocesano, abbiamo maggiore autonomia. Le regole valgono anche per noi, però non abbiamo un rapporto diretto con il Vescovo. Siamo indipendenti”.Dopo il Consiglio Vaticano II, nel 1965, spiega suor Giacomina la chiesa rivolge un appello perché le molte famiglie religiose si uniscano in modo di evitare l’eccesiva frammentazione. Così si forma l’Unione con altre sei congregazioni.“Il nostro fine”, continua suor Giacomina, “è la ricerca della Verità non dogmatica. Una ricerca del Vero, ovunque si manifesti. Del resto la Buona Novella dice che il Vangelo può essere predicato sia oralmente, sia con la testimonianza, sia con il modo di vivere. Non solo dal pulpito”.Viene in mente quanto scritto nella prima Lettera di Giovanni, “figlioli non amiamo a parole, né con la lingua, ma con i fatti e nella verità”. Parole ricordate molte volte da Papa Francesco.
A guidare le suore domenicane è il pensiero di Tommaso d’Aquino che, rifacendosi ad Aristotele riteneva “l’uomo per natura un animale socievole”, che però deve vivere in uno Stato dove il bene dei molti prevale su quello del singolo. Ed è ai molti che si rivolge l’impegno delle suore domenicane.“Abbiamo sempre cercato di evitare le formalità. Di essere semplici, anche nella scelta del lavoro”, spiega suor Edvige che prosegue, “suor Giacomina e suor Vittoria hanno lavorato in fabbrica, io ho insegnato in periferia”.Il loro mondo diventa quello che i giornali titolano “la Torino senza futuro”. “Erano i primi anni Ottanta quando”, spiega suor Giacomina, “come molti operai e le loro famiglie, siamo travolte dalla crisi Fiat. Cassa integrazione, picchetti, scioperi. Soffriamo e viviamo con i lavoratori. La ricerca della Verità per noi prende la forma della fabbrica, della lotta per i diritti”. “Questo perché il Bene e il Vero sono ovunque”, conclude suor Giacomina.
Suor Edvige, invece, laurea in lettere, insegna alle scuole medie, quelle, spiega, di periferia, dove i ragazzi quando vanno in centro dicono, “vado a Torino”. A lei sono affidati i più difficili e i portatoti di handicap, in un tempo in cui ancora non c’era il sostegno e le scuole differenziali non erano del tutto smantellate. Dei suoi studenti suor Edvige ha un affettuoso ricordo. Meno di alcuni insegnanti. “Una mia collega”, dice, chiedeva agli alunni meridionali se fossero di Torino e quando rispondevano di sì, magari perché c’erano nati, gli diceva: allora io, secondo voi, se sono in Giappone sono giapponese? No? Quindi voi non siete torinesi”.Spazzando via, con quest’affermazione, in un colpo ius soli e don Milani.“La nostra vita insieme agli altri”, dice suor Vittoria “è sempre stata un vivere con, mai assistenza”. “La casa era un porto di mare. Gente che andava e veniva”, aggiunge suor Giacomina che prosegue, “era il 1985 quando, per la prima volta, incontriamo un gruppo di persone italiane, legate alla chiesa cattolica, che conoscono la situazione dell’Eritrea e ce ne parlano”.
Negli anni Ottanta l’Eritrea, dopo la colonizzazione italiana, il passaggio inglese e il dominio dell’imperatore d’Etiopia Heilè Selassiè, sta combattendo contro il regime di Menghistu Heile Mariam. Dal 1961 al 1991 la lotta per la libertà diventa, nel Paese, sempre più forte. Nel 1985 moltissimi giovani eritrei, uomini e donne combattono, liberando molte zone. Altri sostengono dall’estero, grazie al proprio lavoro, la lotta dei guerriglieri.A Torino le strada dell’Unione Suore Domenicane e dell’Eritrea convergono, in un primo tempo, grazie ai Cappuccini che ricevevano in Eritrea aiuti dall’Italia. “Noi però” dice Suor Giacomina, “volevamo fare qualcosa di più, non ci bastavano le raccolte di fondi attraverso le cene di beneficenza”.
Così, per una serie di circostanze favorevoli, le suore domenicane decidono di costituire, “legalmente, dal notaio”, il Comitato di Solidarietà con il Popolo Eritreo, composto da italiani ed eritrei spiega suor Edvige. Nello stesso periodo suor Edvige diventata generale della Congregazione, stabilisce che in caso di vendita di immobili di loro proprietà, i proventi vadano a beneficio dei più bisognosi. È quindi dalla vendita di un palazzo torinese che arrivano in Eritrea, nel 1993, i primi soldi del Comitato, per finanziare una scuola e un piccolo ospedale “che si trovano al 90mo chilometro da Asmara verso Massawa, come indicato dal cippo d’italiana memoria”, precisa suor Vittoria.Bisogna però fare un passo indietro. Se i progetti in Eritrea, tra Unione Suore Domenicane e Governo, iniziano dopo l’indipendenza, l’aiuto delle suore arriva ben prima. A turno infatti vanno, accompagnate da eritrei, nelle zone liberate del Sahel, per rendersi conto della situazione e delle necessità.
Decidono quindi di mandare un centinaio di lavagnette per le scuole sotterranee del Fronte Popolare di Liberazione Eritreo (EPLF) e tremila coperte. Un piccolo contributo, dicono, importante però perché stabilisce un contatto diretto con il Fronte.Anche in seguito, spiegano, abbiamo deciso che i soldi andavano inviati direttamente e che a farlo fosse il Comitato, senza missioni o ente religiosi alle spalle, come invece facevano i Cappuccini. “Il nostro interlocutore prima dell’indipendenza è stato il Fronte, poi il governo. Del resto chi, meglio di loro, poteva sapere come spendere i soldi per l’assistenza?”, dice suor Vittoria. In Eritrea, dopo l’indipendenza è necessario ricostruire tutto. Per questo motivo nel 1992 suor Giacomina e suor Vittoria vanno in Eritrea, per vedere i luoghi e conoscere le persone che avrebbero messo in atto i progetti stabiliti di volta in volta dal Comitato. “Abbiamo sempre visitato i posti dove si costruiva o si ristrutturava con i soldi del Comitato. Erano per lo più scuole, ambulatori, ospedali”, dice suor Giacomina.“Solo una volta non abbiamo potuto vedere il posto perché non c’erano strade”, precisa.
“Veramente”, ricorda suor Vittoria, “ci proposero di andare in elicottero, ma noi abbiamo risposto, macché elicottero. Ci fidiamo. Usate per qualcosa di più utile i soldi del carburante”. Adesso Mahimet, quello era il luogo, è raggiungibile con una strada sterrata. E le suore sono fiere che l’ospedale esista grazie anche al loro contributo. Nel 1995 progettano la ristrutturazione e l’ampliamento della scuola di Embatkalla dove “si vedevano i buchi delle bombe” dice suor Vittoria. Poi Shebbe, verso Gathelay, in una zona desertica dove finanziano la costruzione di una scuola e di un ospedale. Quando siamo andate la prima volta a vedere il luogo dove sarebbero sorte le strutture, dicono le suore, c’erano solo distese pungenti di acacie. “La scelta del governo eritreo, che noi abbiamo condiviso, è stata quella di indirizzare i progetti verso le zone più periferiche del Paese”, dice suor Giacomina, che prosegue, “volevano costruire prima dove c’era più bisogno. Il presidente Isaias Afwerki ci disse che percorrendo quella strada spesso morivano donne incinte e bambini, perché il tragitto per raggiungere il primo ospedale era troppo lungo”.
“La nostra politica” dice suor Edvige è sempre stata quella di agire direttamente. Senza Caritas o altri enti. Questo per evitare che i soldi finissero in mille rivoli. Noi siamo diffidenti verso le istituzioni. Non per sfiducia, ma se l’organizzazione in sé assorbe gran parte del denaro per mantenersi, questo per noi non va bene”. In Eritrea, grazie al filo diretto del Comitato, le suore domenicane vedono che i soldi arrivano a destinazione, come stabilito. Quanto ai progetti, spiegano, sono il frutto di incontri e discussioni, prima in Italia, con il Comitato, poi in Eritrea. Niente però di semplice, né scontato. In Italia alcuni di noi avrebbero voluto destinare i soldi, per esempio, alle vetrate di una chiesa. Oppure all’acquisto di un armonium per i frati. Però alla fine la scelta comune di investire in scuole e ospedali, in linea con le necessità eritree, è sempre prevalsa.“Tra l’altro i progetti l’Eritrea li aveva”, dice suor Vitoria “così come i materiali e gli uomini per costruire. Mancavano i soldi, ma quelli li portavamo noi. Un’altra iniziativa di quegli anni è l’adozione a distanza.
“In quel periodo”, spiega suor Giacomina, “il paese aveva il grave problema dei molti bambini orfani di guerra”. “Volutamente”, continua, ”il governo sceglie di non istituzionalizzarli. Vivono invece con i parenti, spesso zii, oppure nonni. Che non fossero in orfanatrofio, ma curati dalle famiglie ci è sembrato positivo. Quindi abbiamo deciso di dare una mano ai parenti, per aiutarli a tenere i bambini. Anche i Cappuccini curavano le adozioni a distanza, però solo per i bambini eritrei nei loro collegi e istituti. Noi ne abbiamo adottati 250”, conclude. Il progetto però ha avuto una durata limitata. Era pensato per l’emergenza del primo periodo post indipendenza. Non si voleva che diventasse un sussidio, dicono le suore per spiegarne la fine. Come Comitato abbiamo sempre voluto fare le cose con gli eritrei, non mettendoci al loro posto, dice suor Giacomina che prosegue: “abbiamo sempre creduto che i popoli siano in grado di pensare al proprio destino e di costruire da sé ciò di cui hanno bisogno”.
Oggi il rapporto tra Eritrea e chiesa cattolica, è teso. Secondo le suore domenicane è una situazione che deriva dall’ostilità della chiesa cattolica eritrea verso il presidente Isaias Afwerki. “I cristiani perseguitati” è un titolo che fa sempre breccia, aggiunge suor Vittoria. Nel 2014, alla vigila di Pasqua, i vescovi cattolici divulgano una lettera pastorale, “dov’è tuo fratello”. Nella parte in cui analizzano la società e la situazione politico-economica del paese, i vescovi imputano la condizione di arretratezza e stasi nello sviluppo al governo, colpevole di far fuggire i giovani alla ricerca di un miglior futuro. Sorvolano però sulla condizione d’instabilità seguita al mancato accordo, dopo il conflitto tra Eritrea ed Etiopia (1998-2000), per la posizione etiope. Una condizione che termina, quasi vent’anni dopo, nel 2018 quando Abiy Ahmed, nuovo premier dell’Etiopia, firma ad Asmara l’attesa pace.
“Per capire il senso della lettera”, dice suor Vittoria “bisogna ricordare che quando c’è stata la visita ad limina in Vaticano dei quattro vescovi cattolici eritrei, (ndr, nel 2014),) la notizia è passata quasi sotto silenzio. Di quanto ha detto Papa Francesco non è trapelato niente”. Dopo l’indipendenza la chiesa cattolica che, fino a quel momento era accomunata alla chiesa cattolica etiopica, nomina per la prima volta i propri vescovi, che ad oggi sono quattro, l’arcivescovo di Asmara e i vescovi di Barentu, Keren e Segheneiti, luoghi dove storicamente il cattolicesimo si è diffuso attraverso le missioni. “Vorrei ricordare” aggiunge suor Vittoria “che i quattro vescovi non li ha nominati Papa Francesco ma Giovanni Paolo II, contrario al comunismo ovunque e in ogni sua forma”.
“Penso” continua “che anche la lotta e l’indipendenza eritrea rientrassero nelle ideologie da combattere. Se così fosse si capirebbe l’atteggiamento della chiesa cattolica, che ha messo a capo della chiesa in Eritrea quattro vescovi notoriamente contrarissimi all’impostazione politica egualitaria del governo di Asmara. Oltre a ciò non si può far finta di non vedere l’atteggiamento dell’America che ha sempre considerato l’anticomunismo un’arma della chiesa cattolica utile ai propri scopi politici. Per quanto ne sappiamo noi, fin dall’inizio, nessun prete o frate cattolico è stato felice dell’indipendenza dell’Eritrea. Molti di loro avevano acquisito posizioni di potere e prestigio che il governo eritreo limita, stabilendo i ruoli dello Stato e della Chiesa. Da qui il malcontento personale e la rivalsa”, conclude suor Vittoria.“La chiesa cattolica” dice suor Giacomina “è stata anche la chiesa dei privilegi. Ora vive male il suo essere minoranza. È vero che in alcuni Paesi ha sofferto persecuzioni, però pregare per la Chiesa perseguitata è diventata una posizione buona per tutti i Paesi”.
Secondo le suore domenicane Papa Francesco, conoscendo la realtà dell’Eritrea attraverso i vescovi, ne avrebbe una visione distorta. Alcune situazioni, spiegano, non sono cambiate neppure dopo l’indipendenza. Per esempio, i Cappuccini considerano ancora Etiopia-Eritrea un’unica provincia, non l’hanno mai divisa, dicono le suore. “Noi” conclude suor Giacomina “abbiamo lavorato vent’anni in Eritrea, dal 1985 al 2005, senza nessun problema. Abbiamo seguito, grazie al Comitato di Solidarietà, progetti di cui siamo orgogliose. Poi l’esperienza è terminata perché, spiega suor Vittoria, “ogni cosa ha un suo tempo e noi stavamo invecchiando…”.
“L’unica cosa brutta di quest’esperienza, che però ci ha lasciato anche belle amicizie”, dice suor Giacomina, “è stata l’ostilità subita da parte di chi lavorava nelle missioni, nelle ong o anche per la Chiesa cattolica. Hanno disprezzato il nostro impegno. Non solo, ci hanno guardato sempre con sospetto, dicendoci: voi non sapete la verità, ve la nascondono”. “Ciò che ci dispiace”, conclude “è che molte di queste persone, artefici di divisioni e falsità, abbiano creato un’immagine distorta dell’Eritrea. E per questo noi non li abbiamo più considerati amici”.
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