Ucraina e Striscia di Gaza sono due conflitti che minano la serenità dell’Europa e avvelenano l’avvento del nuovo anno. Dopo 80 anni di sostanziale pace, il rischio che la guerra diventi un conflitto mondiale non è mai stato così forte
di Gianni Perrelli
Due guerre sull’uscio di casa che negli ultimi giorni si sono intensificate e minacciano di protrarsi oltre ogni limite dell’orrore avvelenano l’avvento del nuovo anno. Un’insidia psicologica, se non diretta, che mina la serenità dei popoli europei perlopiù disabituati negli ultimi 80 anni alle brutalità dei conflitti bellici.
Nella straziata Striscia di Gaza i vertici dell’esercito israeliano calcolano che l’obiettivo di eliminare i capi palestinesi di Hamas, gli ideatori dell’invasione e delle stragi del 7 ottobre da cui è deflagrata la guerra, richiederà almeno altri cinque mesi di offensiva militare. In Ucraina Vladimir Putin, lo zar russo, ipotizza che per “denazificare” il nemico che ha aggredito il 24 febbraio del 2022 potrebbero volerci fino ad altri cinque anni. Con seri rischi, soprattutto in Medio Oriente, di un allargamento che trasformerebbe in belligeranti Paesi già in forte tensione e già impegnati in scaramucce belliche.
Due guerre feroci che con il loro spaventoso carico di morte e distruzione continuano a scuotere pure i Paesi non direttamente coinvolti ma risucchiati (anche finanziariamente) per gli obblighi di sostegno dettati dalla difesa della democrazia o dei principi umanitari. E’ la guerra mondiale a pezzi, secondo l’incisiva sintesi di Papa Francesco. Sormontata, quasi patrocinata, da una sfida più globale in cui le più agguerrite autocrazie – Russia, Iran, con l’appoggio più defilato della Cina – tendono a scalzare l’egemonia delle democrazie occidentali (secondo i loro leaders sfibrate e decadenti) per instaurare un nuovo ordine mondiale a cui dovrebbe unirsi il Sud sfruttato del pianeta.
A Gaza continua ininterrotto l’attacco israeliano che ha già praticamente raso al suolo quasi tutti i centri urbani e ucciso circa 20 mila civili. I negoziati per una tregua umanitaria, prima in Qatar ora in Egitto, sono ostacolati dalla rigidità dei capi di Hamas che condizionano la restituzione di una parte degli ostaggi ancora intrappolati nei loro tunnel alla proclamazione di un “cessate i fuoco” di almeno una ventina di giorni. Il premier israeliano Benjamin Netanyahu, assetato di vendetta dopo le atrocità subite in quel sabato dell’invasione, è riluttante a concedere ad Hamas e alla Jihad islamica (entrambe oggi allo stremo) il tempo per riorganizzare la resistenza e magari procurarsi per vie traverse nuovi rifornimenti. Ma i parenti degli ostaggi lo incalzano fin sotto casa, dopo quasi tre mesi di angoscia non accettano più indugi.
Netanyahu non potrà tenere in conto le pressioni internazionali
A Netanyahu converrebbe rallentare l’avanzata anche per non entrare in rotta di collisione con Joe Biden che continua ad appoggiarlo, ma con sempre minore convinzione, per le agghiaccianti immagini che arrivano dalla Striscia sprofondata in una catastrofe umanitaria. L’escalation dei raid e dei bombardamenti, nel tentativo di stanare dal reticolo dei tunnel i combattenti di Hamas, hanno duramente colpito la popolazione civile. Seminando morte, distruggendo case, affamando le famiglie in fuga, provocando (vista la chiusura dell’unica frontiera con l’Egitto) migrazioni verso il nulla.
Israele, che rispetto ai palestinesi vanta una superiorità militare schiacciante, è ormai impegnata anche su altri fronti. In Libano e in Siria per rintuzzare gli attacchi missilistici di Hezbollah e dei pasdaran iraniani che a Damasco difendono il regime di Bashar Al Assad. In Iraq dove le truppe sciite attaccano le basi degli Stati Uniti che fiancheggiano il governo di Gerusalemme. Nel Mar Rosso, dove gli houti yemeniti (finanziati da Teheran) cercano di impedire la navigazione dei cargo israeliani verso il porto di Eilat con fitti lanci di droni. E anche a livello diplomatico Netanyahu si è alienato la solidarietà di molti Paesi, fra cui la Russia di Putin che continuava a dialogare con Israele pure dopo lo scoppio del conflitto ucraino. Il l leader turco Recep Tayyp Erdogan si è spinto addirittura a paragonarlo a Hitler per l’accanimento di un’offensiva insensibile alle tragedie della popolazione civile. E Il Sudafrica (non proprio un modello ideale di democrazia) ha accusato Israele di genocidio davanti alla Corte internazionale di giustizia.
Pressato da insidie internazionali di ogni tipo, e contestato anche all’interno per le vicende giudiziarie e per l’impreparazione durante l’attacco del 7 ottobre, Netanyahu ha come priorità assoluta l’annientamento di Hamas. Ha bisogno insomma di esibire lo scalpo della vendetta, Anche se non gli può sfuggire che la ribellione di un popolo senza Stato risorgerà dalle sue ceneri. Potranno scomparire gli attuali capi di Hamas. Gaza potrà essere messa sotto chiave. Ma il movimento radicale troverà altri canali per rivendicare i diritti del popolo palestinese. Con altri leader, su altri scenari. Soprattutto perché l’alternativa dell’Autorità Palestinese gestita dall’88enne Abu Mazen che esercita un blandissimo controllo sulla Cisgiordania, appare troppo esangue e spompata.
Paradossalmente a Netanyahu, allergico per diffidenza naturale allo schema dei “due popoli e due Stati”, converrebbe trascinare la guerra alle lunghe. Perché sa che il suo consenso in Israele è ormai ridotta al lumicino. Già prima del conflitto veniva ogni settimana contestato per aver portato al governo gli estremisti dell’ultradestra che difendono a spada tratta l’estensione degli insediamenti dei coloni in Cisgiordania privando di altra terra i palestinesi. Mossa spregiudicata con cui cercava di promuovere una riforma della giustizia che avrebbe messo il potere giudiziario sotto il controllo di quello esecutivo e lo avrebbe salvato dalla galera (è accusato di corruzione). Perfino nel suo partito (i conservatori del Likud) ha perso una buona fetta di sostenitori. L’unica sua speranza è di tentare di rimontare la corrente vincendo la guerra. Dimostrando, come è avvenuto per quasi 20 anni, che resta lui l’unico baluardo per la difesa di Israele. Ma, pur avendo sempre capitalizzato le straordinarie capacità di sopravvivenza, oggi la sua conferma al potere appare una missione quasi impossibile. Comunque vada a finire il conflitto l’orientamento di Israele è quello di sostituirlo con Benjamin Gantz (ex capo di Stato Maggiore e leader di una formazione centrista) che in nome dell’unità nazionale lo sta provvisoriamente fiancheggiando in un momento così drammatico per il Paese ma è già pronto a prendere le distanze.
Putin, ormai quasi Zar a vita, appare solidamente in controllo
Apparentemente più roseo appare il futuro di Vladimir Putin. Che in marzo si farà confermare, praticamente a vita, zar del Cremlino. Le difficoltà di una guerra in stallo non gli hanno nociuto elettoralmente. La maggioranza del popolo russo, perlopiù dislocato nelle campagne, continua a sostenerlo un po’ perché drogato di nazionalismo, un po’ per scarsità di fonti indipendenti di informazione, un po’ per mancanza di alternative. Non gli hanno nociuto né le sanzioni né gli embarghi, in parte aggirati attraverso una serie di triangolazioni complici con i Paesi che gli sono rimasti ideologicamente o per convenienza fedeli, E neppure i modesti risultati di una guerra di posizione novecentesca (modernizzata solo dall’impiego dei droni) che in un paio di giorni si proponeva di riportare l’intera Ucraina sotto la sfera di influenza russa. Ma che di fatto in quasi due anni ha conquistato a prezzo altissimo (incalcolabile il numero dei morti nell’Armata Rossa) solo qualche chilometro quadrato di territorio rispetto alle postazioni fissate dagli scontri interucraini a bassa intensità fra il 2015 e il 2022.
Lo scoppio del nuovo conflitto in Medio Oriente ha inevitabilmente attenuato l’indignazione dell’opinione pubblica mondiale sulle brutalità compiute dalla Russia contro la popolazione civile ucraina. Approfittando del mutamento delle gerarchie di attenzione Putin da paria internazionale ha cercato di ergersi perfino a mediatore (in quanto paladino della causa palestinese) nel ginepraio del Medio Oriente in cui ha interessi diretti come protettore in Siria di Assad.
Negli ultimi giorni lo zar, fiutando le difficoltà in cui si ritrova Volodymyr Zelensky (a corto di uomini e di munizioni dopo la fallita avanzata estiva, in polemica con i suoi vertici militari, probabilmente ormai anche privato degli aiuti americani dopo l’irrigidimento dei repubblicani) ha moltiplicato gli attacchi missilistici contro le città ucraine. Facendo intendere che forse non ha rinunciato del tutto all’idea di sottomettere prima o poi l’intero Paese. Un’offensiva a cui l’esercito di Kiev, sia pure in parziale ritirata, ha risposto con un analogo assalto contro i centri russi vicini al confine. Segno che Zelensky, malgrado tutto, non intende demordere. Perché sa che il destino dell’Ucraina è ormai agganciato all’Europa, alla Nato, alla difesa della democrazia. Anche se alla Casa Bianca nel 2025 dovesse insediarsi di nuovo Donald Trump.
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