di Velia Iacovino
Se Giorgia Meloni si fosse chiamata Giorgio Meloni probabilmente non avrebbe avuto tutta questa grande positiva entusiastica attenzione mediatica. Probabilmente se Giorgia fosse stato Giorgio non avrebbe neppure vinto le elezioni, perché la storia in alcuni momenti ha bisogno dei panda. E se in veste maschile avesse vinto, sicuramente l’Italia sarebbe finita sotto i riflettori, attenzionata, come si dice, per avere alla guida un premier di estrema destra.
Ma Giorgia è Giorgia, al di là della retorica della parità dei sessi. Ed è il nostro premier nel bene e nel male. E se Forbes l’ha divinizzata inserendola tra le lady più potenti del mondo ne siamo felici perché fa bene all’immagine dell’Italia. Che dire? E’ lei, senza ombra di dubbio, e per un milione di motivi, il personaggio dell’anno del nostro paese. Uno show senza sorprese
Giorgia è intelligente, carismatica, capace. Ha ottime doti oratorie, confermate anche nella sua conferenza di fine anno, durata tre ore di fila. Un altro record messo a segno battendo Giuseppe Conte di 4 minuti e fronteggiando una raffica di ben 43 domande.
E se in tanti, tra gli analisti politici che fanno l’agenda setting italiana l’hanno esaltata e continuano ad esaltarla ammaliati, c‘è in verità poco da essere tutti pazzi per lei. Il suo show è stato impeccabile, ma privo di sorprese. Non ha regalato nulla di nuovo ai giornalisti, tra l’altro impossibilitati da un assurdo regolamento a ribattere. Se si può dire, la sua performance è stata piuttosto noiosetta e autoreferenziale, condita di risposte scontate ed evasive. E in qualche caso anche omissive, come sulle forti divisioni all’interno della maggioranza, tema incandescente che super Giorgia ha liquidato con un generico “Mi fido dei miei alleati”.
Il mantra di Giorgia
Con competenza e consueta buona oratoria, Giorgia ha parlato di guerra, di rave party, di ong, di giustizia, di semipresidenzialismo, del diritto del suo ministro Ignazio La Russa a commemorare il defunto Msi, assicurando in compenso che lei sarà presente alle celebrazioni del 25 aprile, ma non ha superato la soglia. Non è riuscita ad andare oltre il consueto mantra identitario, nazionalista e ormai retrò della vecchia destra. Un mantra per altro al quale rischiamo pericolosamente di assuefarci e non sentire più. Sulla manovra ha giocato in difesa, ricordando che il Parlamento ha avuto solo due mesi di tempo per lavorarci e che è stata approvata un giorno prima del previsto.
Ma ha evitato deliberatamente di approfondire tante importanti questioni, sorvolando con impropria leggerezza, ad esempio, sul taglio del tempo del dibattito parlamentare sul provvedimento rave-covid-giustizia. Paletti imposti all’Assemblea, che hanno in qualche modo contribuito ad offuscare quella idea di centralità del Parlamento, che era parso le stesse tanto a cuore quando era all’opposizione. Centralità messa a rischio in questi due mesi di governo anche da un’iper e non sempre giustificata decretazione d’urgenza.
Meloni si è affidata alle sue notevoli capacità retoriche così da dare l’impressione di dire tanto senza dire nulla. E da maestra in quest’arte ha parlato, senza scendere in dettaglio del Pnrr, a proposito del quale ha riconosciuto, che se sono stati raggiunti i 55 obiettivi, 30 dal suo esecutivo, è stato anche grazie alla staffetta con il governo Mario Draghi, che fino all’altro ieri accusava di aver lavorato male e di aver lasciato in eredità una situazione confusa. Parole in libertà anche sugli 11 piccoli condoni, di cui ha negato l’esistenza…sostenendo che no, “non ce n’è nessuno nella legge di bilancio” e rimarcando che ”tutti pagano il dovuto” e che “le uniche cartelle stralciate sono quelle vecchie più di 7 anni e inferiori a mille euro, banalmente perché conviene allo Stato”.
Sanità ignorata
Un fisco “severo ma amico” quello che Giorgia si augura di assicurare al paese, ha rimarcato, con una flat tax a 85 mila euro “che non discrimina nessuno”, e che a occhio sembrerebbe una cosa buona per i liberi professionisti, ma che di fatto avvantaggia solo i redditi più elevati, una platea, secondo i calcoli dell’Ufficio Parlamentare di Bilancio, costituita da non oltre 60mila contribuenti. Fumo negli occhi. Ma c’è di peggio. Preoccupa ad esempio e molto il destino della sanità pubblica. In conferenza il premier non ha dato risposte esaustive, limitandosi a dire che non ci sarà Mes, cioè che non attingeremo a nessuna linea di credito europea per le troppe condizioni imposte, e sorvolando sul fatto che la legge di bilancio abbia destinato al settore 1,9 miliardi per i prossimi due anni, una miseria se si pensa che gli italiani sono costretti a spendere in sanità privata 40 miliardi l’anno, che servirà non certo per migliorare le performance ospedaliere, ma per far fronte alle bollette elettriche dei nosocomi: 1,5 miliardi nel 2023, 500 milioni nel 2024.
Un provvedimento che sembra spingere il nostro sistema sanitario, dopo le atroci picconate che gli sono state inferte tra il 2010 e il 2019 da Mario Monti e dai governi a targa Pd che gli sono succeduti, con tagli di fondi pari a 37 miliardi, a un passo dal baratro.
Si investe sulle armi non sulla scuola. E tutto ciò mentre, in virtù degli accordi con la Nato, si andrà ad aumentare la spesa militare al 2% del Pil, come ha confermato la stessa Meloni, precisando che la libertà ha i suoi costi. Ma di quale libertà si parla, c’è da chiedersi, se si lascia, pericolosamente indietro la scuola statale, che è uno dei suoi massimi incubatori, con investimenti algebricamente pari a zero -150 milioni di euro da destinare al personale scolastico e il ripristino del taglio di 126 milioni di euro per il funzionamento scolastico- con una “riduzione graduale del numero degli istituti” (si prevede la chiusura di 700 scuole in due anni).
E se si continua a privilegiare il settore della scuola privata che, nonostante copra il 10% dell’offerta formativa, riceverà un finanziamento di circa 70 milioni di euro. Questi sono i primi frutti del melonismo tradotto in pratica che ridisegna ancora una volta uno scenario tetro, senza grandi visioni che potrebbe far ricadere il nostro paese ancor più nelle retrovie del mondo, completandone la trasformazione in quell’“Italietta” un po’ d’avanspettacolo concentrata sull’interesse nazionale, amica di tutti e di nessuno, ben distante dal ruolo che in altri tempi ha saputo ricoprire a livello internazionale, ma comunque comodamente sistemato accomodata in un angoletto del carrozzone americano, anch’esso ormai sgangherato e privo di bussola.
Il grande vuoto e la sinistra
Il problema è che da un lato Giorgia è ambiziosa, decisa a non mollare mai e a restare in sella a lungo. Una garanzia di stabilità per alcuni, per altri lo spettro di una nuova lunga era di destra al potere come fu, per non andare troppo indietro, quella di Berlusconi. Dall’altro è che è circondata da un grande vuoto, che potrebbe facilmente e presto andare ad occupare per intero come fece Silvio nella confusione di tangentopoli. Solo che adesso il vuoto è di altro genere.
E’ un vuoto di valori, è Il vuoto spaventoso che ci ha lasciato una sinistra oggi incarnata dal Pd, una sinistra che, mischiando in una sorta di insano matrimonio di convenienza i suoi dna valoriali con quella dc camaleontica sopravvissuta al caso Moro, ha finito solo per autodistruggersi. Una sinistra che ha smarrito la strada e ha preso le distanze dalle sue battaglie originarie, che ha smantellato lo stato sociale e immiserito la nostra cultura politica, frammentandosi e cedendo di volta in volta senza strategia alle sirene del populismo per poi ritrarsi spaventata.
Una sinistra, lontana dal suo nuovo potenziale bacino elettorale, che non è più costituito, e se ne deve fare una ragione, da braccianti, tute blu e devoti parrocchiani alla Rosy Bindi, ma da una classe media schiacciata su tutti i fronti, una sinistra che ora versa in una situazione gravissima, che difficilmente il congresso rifondativo in corso sanerà. Una sinistra che ha consegnato l’Italia alla Meloni e che ora sembra puntare tutte le sue speranze di rinascita, anche qui senza alcuna originalità e a scimmiottesca imitazione della destra, su una donna, Elly Schlein, invenzione di Dario Franceschini, una sorta di Carneade anti-Meloni, che chissà se avrà il coraggio di dare un taglio a tutto e alla fine farsi un partito suo come fece Giorgia. Comunque vadano le cose i tempi di ripresa per la sinistra non saranno brevi. E intanto? L’augurio è che Giorgia faccia un balzo in avanti, uscendo definitivamente dal cerchio magico del nostalgismo fascista affollato di cimeli del duce. L’Italia non ha bisogno del saluto romano e neppure del pugno chiuso. Ma di un’era nuova, di pensieri nuovi e di intelligente concretezza.
(Associated Medias) – Tutti i diritti sono riservati