A dieci mesi dall’invasione le prospettive di arrivare ad una pace rapida sono al minimo: i tentativi portati avanti, da Erdogan, al Papa a Macron, sono tutti falliti. Un cessate il fuoco temporaneo per dare tregua ai civile è un obiettivo minimo ma sembra anch’esso difficile da realizzare
di Gianni Perrelli
Si discute molto, anche troppo, di pace. Salvo che in Russia, non c’è angolo del pianeta che non auspichi per le feste di fine anno almeno una tregua, una sospensione della ferocia bellica, nella guerra in Ucraina che si protrae tragicamente da dieci mesi (ricorrono proprio il giorno della vigilia di Natale). Ma i flop a ripetizione di tutti i tentativi diplomatici non lasciano margini di illusione. La recente conferenza di pace di Parigi, convocata da Macron in pompa magna, si è limitata ad elargire all’Ucraina il fabbisogno finanziario (un miliardo di euro) per sopravvivere tutto l’inverno fra le macerie e al buio e al gelo. Ci prova ogni tanto Erdogan, l’unico leader che riesce a entrare ancora in contatto con Putin (pur dialogando contemporaneamente con Zelensky), a proporre l’avvio di un negoziato. Ma inutilmente.
A Macron, che pure lo cerca, lo zar del Cremlino non risponde neppure al telefono. E anche con il Papa, accusato di aver usato espressioni troppe dure verso i ceceni e i buriati (per poi scusarsi), ha chiuso tutti i canali. Sembra semmai più disponibile a un confronto con l’America, perché il dialogo con Biden riconoscerebbe alla Russia il rango di grande potenza. Ma rimanda l’evento a tempi più maturi, riducendo per il momento il raggio di azione alla scambio di prigionieri. E sa che intanto dalla Cina, che pure è stufa di questa guerra ottocentesca, non incasserà sconfessioni. Xi Jinping, che all’inizio per consonanza ideologica lo sosteneva a spada tratta, se ne sta zitto schiacciato a sua volta da una mole di problemi imprevisti (in primo piano la tormentosa gestione del Covid).
Putin rimane sordo a ogni apertura. Al massimo è disposto a concedere che la situazione prima o poi è destinata fatalmente a sbloccarsi. La storia insegna che nulla dura per sempre, a un certo punto è finita perfino la guerra dei cent’anni. Ma avverrà, fa capire, solo alle sue condizioni. Con la rinuncia dell’Ucraina a riconquistare la Crimea e il riconoscimento della sovranità russa su tutto o quasi tutto il Donbass. Un obiettivo minimo per un leader che pensava troppo spavaldamente di espugnare Kiev con una guerra lampo di qualche giorno. Nell’intento di detronizzare subito Zelensky e insediare a Kiev un governo fantoccio manovrato da Mosca. Ma proprio per questo un obiettivo irrinunciabile. Cavillare sulla distribuzione dei territori significherebbe ammettere una sconfitta su tutta linea che lo zar, sia pur ormai perdente, non può permettersi perché preparerebbe la sua fine.
Consapevole di aver fallito sul piano militare – sia per l’impreparazione del suo esercito che contava di poter fare una passeggiata sia per i sofisticati armamenti forniti all’Ucraina dagli Stati Uniti – Putin traccheggia cancellando tutti gli appuntamenti pubblici di fine anno e uscendo mediaticamente di scena. Una mossa misteriosa, interpretata in vari modi. C’è chi la attribuisce ad un aggravarsi delle condizioni di salute. Ipotesi poco credibile perché è stato dato per moribondo già più volte, senza contare che è stato annunciato un suo viaggio nella Bielorussia dell’alleato Lukashenko. Chi la inquadra nella cornice delle misure di massima sicurezza. Lo zar è ovviamente un bersaglio, ma lo è da sempre e da ex capo del Kgb sa bene come difendersi. Chi infine spiega il suo spiazzante silenzio con la semplice ragione che qualsiasi cosa dovesse dire, eccetto l’ammissione della almeno provvisoria sconfitta, risulterebbe poco attendibile e gli creerebbe imbarazzo.
Ma anche questa congettura presta il fianco a svariati dubbi. Sono oltre due decenni che Putin può dire ciò che vuole senza perdere un grammo di consenso. Senza pagare dazio si è perfino grottescamente permesso di ribattezzare la guerra un’operazione speciale, sottoponendo a severe pene chiunque abbia osato contraddire la versione ufficiale. E anche adesso – nonostante le dure sanzioni inflitte a Mosca dagli Stati Uniti e dall’Europa, il tonfo militare e la crisi economica che morde ogni giorno di più – il suo consenso rimane altissimo (oltre il 70 per cento). Segno, anche se inspiegabile ai nostri occhi, che il suo carisma ha ancora una forte presa sul paese. Arroccato nella difesa della vocazione imperiale o forse rassegnato all’idea che in una società senza tradizioni democratiche il capo ha sempre ragione.
Putin, ammutolito, spera probabilmente nell’aiuto del generale inverno che altre volte nella storia è venuto in soccorso dei russi. In attesa della primavera, quando per una ripresa dell’offensiva potrà schierare truppe fresche e l’eventuale avanzata non sarà ostacola dal ghiaccio, continua a seminare terrore aumentando il volume di fuoco per massacrare le città e le centrali di energia. Allo scopo di tentare di far capitolare gli ucraini per freddo e fame, indurli all’esodo, magari a cercare di sbarazzarsi di Zelensky per tornare a una vita normale.
Ma anche questa è una pia illusione. Nel popolo ucraino che il Cremlino voleva assoggettare, aggredito barbaramente nello spirito oltre che fisicamente, si è sedimentata una tale carica di odio verso la Russia (rinfocolata dalla memoria dell’Holodomor, la grande carestia pianificata da Stalin negli anni Trenta che provocò milioni di morti) che perfino nel Donbass russofono solo una esigua minoranza di cittadini guarda senza rabbia a Mosca. Non c’è sacrificio o stento che possa indebolire una volontà di resistenza contro l’invasione cementata dall’agghiacciante campionario di ferocia esibito dagli aggressori. Zelensky, che già subito dopo il primo blitz scelse di rischiare il martirio rifiutando l’esilio dorato offertogli dagli americani, sa benissimo che se cedesse verrebbe estromesso dal potere a furor di popolo.
I recenti successi militari, che hanno costretto i russi a cedere terreno, hanno al contrario creato un clima di cauto ottimismo che lascia addirittura sperare nella liberazione di tutti i territori occupati. Ma anche questa sembra un’ennesima illusione. L’Ucraina, sia pur appoggiata a spada tratta dalla Casa Bianca, difficilmente sarebbe in grado di riconquistare la Crimea e l’intero Donbass. Alla peggio Putin, che nel frattempo ha aumentato di un terzo il budget delle spese militari e annunciato un per ora criptico disegno di bussola strategica, non esiterebbe a ricorrere all’Armageddon: il lancio di un’arma nucleare tattica che rivoluzionerebbe gli esiti del conflitto.
Neppure Joe Biden è interessato a incoraggiare oltre misura la pur legittima e giustificata aspirazione di rivalsa sbandierata da Kiev. Pur riconoscendo che un serio negoziato di pace potrà partire solo quando lo deciderà Zelensky, è obbligato ad azionare il freno per prevenire il rischio di una reazione esagerata di Putin che potrebbe sfociare in una guerra nucleare. Al momento allarga ancora un po’ i cordoni della borsa e promette di consegnare a Kiev i Patriot. I modernissimi missili antimissile che irrobustiscono le linee di difesa e creano ancor maggiore irritazione a Mosca.
Non si vede insomma come uscirne. Persistendo lo stallo, l’unica soluzione sulla carta sarebbe un armistizio che congelerebbe il conflitto rinviando la soluzione a un indefinito futuro. In pratica la divisione almeno temporanea dell’Ucraina in due blocchi, come avvenne quasi 70 anni fa con le due Coree che non hanno mai firmato un trattato di pace e continuano a fronteggiarsi alternando minacce a rari gesti di amicizia posticcia. La parte occidentale del paese entrerebbe in Europa, quella orientale – già virtualmente fagocitata da Putin con i referendum farsa – verrebbe annessa alla Russia. E’ una prospettiva che non dispiacerebbe del tutto all’America e non sarebbe neanche sgradita all’Europa logorata dai danni esorbitanti della guerra e innervosita dai danni iperbolici provocati dalla crisi energetica.
Ma è una via d’uscita su cui non convergono ancora i due protagonisti, Putin e Zelensky. Entrambi determinati a conquistare, se non proprio la vittoria, quanto più territorio possibile per arrivare al negoziato su posizioni di forza. Ma fino a quando potrà protrarsi questa sfida mortale in nome da un lato del dominio imperiale e della prepotenza, dall’altro del recupero della piena sovranità e della libertà? Il costo della tragedia si fa ogni giorno sempre più insostenibile. In termini di economia, di distruzione, di lutti, di migrazione forzate, di smembramenti familiari, di inaudite sofferenze materiali e psichiche, di perdita insopportabile di vite umane.
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