Faceva danzare le parole…Addio a un vero figlio del Mediterraneo, amante allo stesso modo di oriente e occidente
di Velia Iacovino
Faceva danzare le parole con le note, finché non diventavano pura poesia. Evocativa, emozionante, quasi da togliere il fiato per il modo in cui inondava i sensi con quel timbro speciale della voce. Franco Battiato, che si è spento a 76 anni dopo una lunga malattia, non era un cantautore qualunque. Era l’aedo della bellezza, il pellegrino sotto le stelle che aveva trovato la strada. Un grande iniziato, che da figlio del Mediterraneo, amava alla stessa maniera Oriente e Occidente. Un maestro per la generazione venuta dopo quella della stagione illusoria dell’impegno.
Negli anni in cui visse a Milano, dove studiò arabo, affinò il suo talento musicale, cimentandosi con la chitarra al Club 64, frequentato dai mostri sacri della canzone e dello spettacolo dell’epoca, come Enzo Jannacci, Bruno Lauzi, Paolo Poli… Giorgio Gaber, di cui diventò grande amico e che gli produsse nel 1967 il 45 giri La Torre. Ma si imbattè anche in un personaggio affascinante e poliedrico, che esercitò grande influenza sulla sua formazione artistica: Gabriel Mandel, di origini turco-afghane, docente universitario di storia dell’arte, islamista, ma soprattutto maestro sufi, vicario in Italia della confraternita Halveti Jerrahi che aveva la sua casa madre a Istanbul.
Fu un incontro del destino. Tramite lui Battiato si avvicinò al misticismo islamico, che influenzò anche la sua arte figurativa, le sue tele e le sue tavole (che all’inizio firmava con lo pseudonimo di Süphan Barzani) hanno avuto da allora come protagonisti dervisci rotanti e sufi in preghiera. Scoprì Renè Guenon (1886 1951), filosofo francese, esoterista. E si innamorò di Georges Ivanovič Gurdjieff (1872 1949), musicista di origini greco-armene, studioso di danze sacre, in particolare quelle dei dervisci, fondatore della scuola per lo Sviluppo Armonico dell’Uomo, mistico molto amato anche dal grande Frank Lloyd Wright, tra i piu’ geniali architetti del Novecento.
Fu proprio Gurdjieff, come Battiato stesso ha raccontato, a cambiare la sua vita e a indicargli la via, quella della incessante ricerca del segreto dell’universo, una ricerca che ci ha raccontato attraverso i suoi 30 dischi, entrati nella storia degli ultimi cinquant’anni della canzone italiana, grandi indimenticabili successi, autentici capolavori, frutto di una continua e originale sperimentazione portata avanti spaziando anche tra un mix di generi diversi, dal rock alla musica etnica, alla lirica.
Qual è il suo brano piu’ bello? L’era del cinghiale bianco, Prospettiva Nevskij, Un centro di gravità permanente, Bandiera Bianca, Voglio vederti danzare, Cuccurucu’, E ti vengo a cercare, Povera Patria, o La cura? C’è solo l’imbarazzo della scelta. Ogni pezzo, come ogni suo concerto – indimenticabile quello di Baghadad del 1992- sono esperienze sinestetiche, viaggi verso luoghi sconosciuti e spazi infiniti, spezzati da improvvisi silenzi e cambi di registro musicale e testuale. Le sue canzoni non raccontano storie…lasciano sgorgare i pensieri così come nascono nel flusso della coscienza.
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